Eretto intorno al 1080, completamente riprogettato dal Peruzzi nel 1532-36, monumento nazionale dal 1928, il Castello di Rocca Sinibalda è un palazzo-fortezza straordinario, unico in Europa.  Contemporaneamente astratto e animalesco, cubista e zoomorfo: “creazione geometrica astratta, costruzione che pare tagliata con la spada” (Zander, 1955), ma anche rappresentazione architettonica di un’aquila dalle ali ripiegate per gli uni, di uno scorpione sinistro per altri, più visionari.

La contraddizione e il paradosso sono l’identità profonda del castello. Intensamente medievale, eppure grande architettura rinascimentale. Gotico eppure razionale. Cupo eppure luminoso. Poderoso strumento da guerra, eppure palazzo signorile principesco. Sobrio, severo, a tratti aspro, eppure decorato da affreschi manieristi densi di cultura classica e da grottesche cariche di capriccio e di immaginazione libera.

Castello delle metamorfosi, dove le forme, i volumi, gli spazi interni ed esterni, le immagini e le luci, le singolari collezioni, i percorsi interni diversi e insoliti invitano a non essere semplici, e a desiderare il cambiamento.

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Affreschi

Nel Castello si possono ammirare gli affreschi rinascimentali più importanti della Sabina, concentrati nel piano terra e nel piano nobile del palazzo signorile inserito tra le strutture militari della coda e dello sperone anteriore.

A questi vanno aggiunte le settecentesche rappresentazioni pittoriche del Castello e del suo territorio nella Sala Grande.

Gli affreschi del Cinquecento  sono stati commissionati dai Cesarini a completamento della ricostruzione progettata dal Peruzzi. Gli affreschi erano il segno forte della vocazione signorile e non solo guerriera del Castello. Dovevano introdurre identità, storia, mito, cultura, bellezza e pseudo-memorie di famiglia: il piacere di vivere innestato sull’espressione della forza armata, secondo una sintesi caratteristica del Rinascimento italiano e pronta a contagiare l’Europa.

In realtà i committenti furono due, il cardinale Alessandro Cesarini, ricchissimo e potente mecenate filoimperiale, che aveva assoldato Peruzzi per una lunga serie di progetti tra cui la Rocca Sinibalda; poi il marchese Giuliano, “uomo superbo et violentissimo”, cui si deve la seconda ondata di affreschi, proseguita in parte anche dopo la sua morte nel 1565.

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Collezioni

Il castello delle metamorfosi ha la vocazione di tenere insieme gli opposti. Antico, è ipermoderno. Razionale e tecnologico, coltiva l’inconscio e il primitivo. Il suo riferimento estetico sono le avanguardie artistiche del Novecento che hanno preso a ispirazione e modello la cosiddetta arte primitiva.

Le collezioni includono maschere e totem degli indiani del nord-ovest, maschere e oggetti rituali africani, opere di artisti che lavorano con scarti e residui del quotidiano. Tutti gli oggetti della collezione sono in un modo o in un altro figure della metamorfosi, del cambiamento, del passaggio da un stato all’altro e dialogano  con i cicli di affreschi ispirati ad Ovidio e con le grottesche.

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Restauro

Un impegnativo progetto durato 7 anni.

La direzione artistica è stata curata dall’Arch. Claudio Silvestrin e dal suo Studio, scelti dopo una selezione che ha coinvolto nomi prestigiosi come Gae Aulenti, Michele De Lucchi e altri di eguale peso.

Il castello è vincolato. I lavori sono stati seguiti e supervisionati dall’arch. Caterina Nucci per la Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, e dai dott. Dora Catalano e Benvenuto Pietrucci, per la Sovrintendenza ai Beni Artistici. All’arch. Nucci è toccato il compito più complesso, svolto con appassionata partecipazione e con continue visite in cantiere.

La GPL Costruzioni ha eseguito le impegnative lavorazioni generali. Le restauratrici Silvia Balena (Restaura sas) e Alessandra Morelli hanno curato la pulizia e il recupero degli affreschi e dei soffitti lignei. La signora Morelli ha gestito la ricerca coloristica e l’intervento sulle malte delle pareti esterne (Corte grande, cinta muraria). Il sig. Cisbani e la ditta Petres hanno salvato marmi impossibili.

L’obiettivo era: un restauro approfondito ma invisibile. Il commento più appropriato è venuto dall’Arch. Silvestrin: “sembra che non sia stato fatto nulla”.

Problemi e scoperte

Il restauro si è scontrato con problemi di ogni genere, alcuni prevedibili, altri no.

Il più grave: la collocazione impervia. La gru di 30 metri è stata portata in elicottero e montata in loco. Le strade strette intorno al castello erano impraticabili per mezzi anche medio-piccoli. La costruzione dei ponteggi su spuntoni di roccia a picco e con mura non verticali ha messo a dura prova i tecnici.

Difficile poi trovare sabbia della zona coerente con i materiali usati nei secoli scorsi per la malta delle mura. Ancora più difficile recuperare senza costi stratosferici quanto già esisteva: gradini di marmo plurisecolari, portelloni e porte massicce, mattoni belli perché consumati.

I problemi più gravi sono venuti dalla mediocrità e dalla povertà culturale e di risorse degli interventi precedenti. La Corte grande con un improbabile e volgare acciottolato. Il cemento, spesso il cemento grigio!, usato con generosa stupidità e quasi impossibile da rimuovere. Gli spuntoni di ferro piantati negli affreschi. L’abbondante uso di verniciature sui pavimenti di legno e sui mattoni. Le sostituzioni delle parti danneggiate dei soffitti lignei con materiali d’accatto. Ovunque le infiltrazioni mai tamponate, che hanno degradato ampie superfici affrescate, richiedendo un lavoro delicato di ripristino parziale. Sugli affreschi, restauri goffi in assoluto, e effettuati spesso con vernici acriliche! E quanto altro ancora, che spiega i 7 anni di lavori!

Per fortuna anche le scoperte.

Ad es. una neviera profonda 7 metri, riempita in passato di detriti di ogni genere, e ignorata in tutti i rilievi: svuotata, mostra ora in che modo, centinaia di anni fa, i castellani si garantivano neve e ghiaccio per i mesi estivi.

Una vasca-piscina, piccola ma in posizione stupenda, usata negli anni ’60 dalla Peggy Guggenheim,  da Gregory Corso e da altri poeti della Beat Generation, dal Living Theater. Poi riempita di terra e di qualche arbusto insensato.  Ora tornata ad essere ciò che appariva nelle foto di allora, ritrovate.

Il mini-anfiteatro alla fine della cosiddette Cantine, perfetto spazio micro-scenico di grande bellezza.

Gli spuntoni di roccia sui quali è costruito il Castello, liberati da tutto ciò che chissà perché  voleva nasconderli.

Le grandi pareti murarie con le forme potenti e geometriche occultate dall’edera, finalmente eliminata.

E tanto altro ancora.

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